«Sul tema dell’alienazione, sempre presente, e sul tentativo da parte dello scrittore di un recupero esistenziale, si svolge, per tutto il grande arco della narrativa e del teatro di Pirandello, il senso della metafora pirandelliana che ha per oggetto la condizione di solitudine dell’uomo»: queste le parole di Francesco Virdia in “Invito alla lettura di Pirandello”, pubblicato nel 1975 dalla “Ugo Mursia Editore”.
Nelle sue opere Luigi Pirandello fa dipendere l’alienazione dell’uomo dalla sua stessa condizione esistenziale, dal fatto stesso di essere al mondo e dall’uso delle strutture mentali che gli sono state fornite della natura e che portano alla creazione, volontariamente o involontariamente, di quelle che il grande scrittore siciliano definisce come “forme”. Per l’autore, come scrive nel trattato “L’umorismo”, edito per la prima volta nel 1908, «Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci».
L’uomo ha possibilità di vivere solo in una dimensione di completa alienazione; può vivere solo a patto che non si renda conto della realtà dell’esistenza, soltanto se «vive senza sapere di vivere» (come appare lampante nella mente di Nicola Petix, nella novella “La distruzione dell’uomo”), «[…] le finzioni abituali sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o impazzire» (L. Pirandello, L’umorismo, Garzanti edizioni, 2011, p. 212), estrema conseguenza a cui giunge il povero Tommasino Unzio in “Canta l’Epistola” che, disilluso dalla vacuità della vita, vedeva ora tutte le illusioni e tutti i disinganni, tutti i dolori, le gioie, le speranze e i desideri degli uomini come vani e transitori di fronte al sentimento che spirava dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili.
Per Pirandello l’alienazione dell’uomo, che si esprime nel concetto pirandelliano della “forma”, è imposta all’uomo dalle strutture stesse dell’esistenza; l’uomo è per forza di cose un essere alienato e non potrebbe sopravvivere altrimenti, secondo quanto il grande scrittore siciliano afferma nel quinto paragrafo della seconda parte del trattato “L’umorismo”.
Come risulta chiaro dalle stesse parole dell’autore, è la natura che fornisce ed impone all’uomo il perenne inganno della “forma”, «la maschera che dobbiamo portare per forza per vivere, perché è proprio quella maschera che ci impedisce di affacciarci su quel qualcos’altro, se non a costo di morire o impazzire». Ne consegue che l’alienazione è una condizione naturale, essenziale di ogni essere umano: non c’è possibilità di vita al di fuori dell’alienazione, del «credere e di far credere agli altri di essere quello che in realtà non si è», di «vivere senza sapere di vivere», come fanno gli inquilini del casone lercio e tetro che Nicola Petix, protagonista della novella “La distruzione dell’uomo”, è costretto a vedere giorno dopo giorno, mentre svolgono le loro azioni quotidiane «tanto per fare, secondo le proprie inclinazioni o capacità, secondo i sentimenti o gli istinti, volendo proprio a quelle inclinazioni o quei sentimenti seguiti da dentro, perché si hanno e si sentono, assegnare uno scopo visibile da fuori».
La realtà autentica è il flusso continuo dell’esistenza, il divenire, che l’uomo non riesce e non può accettare come tale, perché si rende conto che abbandonarsi ad esso significherebbe autodistruggersi, oltre che sul piano fisico anche su quello mentale; risultato a cui giungono tutti i protagonisti delle sue novelle nel momento in cui si rendono conto di come la loro esistenza non sia altro che una piccolissima particella vorticante nel fluire perpetuo della materia, proiettata ad un eterno divenire, appunto.
Chi riemerge dall’oltre, da questa presa di coscienza, è un uomo profondamente modificato, che ha, umoristicamente, “capito il gioco”, e non può più credere alla quieta apparenza delle cose cui pure, per continuare a vivere, dovrebbe continuare a credere o far finta di credere (constatazione espressa da A. Tilgher nel suo articolo “Pirandello mistico”, in «La Stampa», 1924).
Da ciò la necessità di chiudersi in una forma («l’inganno per vivere»), di tenere accesi i famigerati “lanternini” e “lanternoni” della visione espressa dal signor Anselmo Paleari nel “Fu Mattia Pascal” al suo pigionante Mattia sotto le mentite spoglie di Adriano Meis: «la vita è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi», come affermato nel quinto paragrafo della seconda parte del trattato “L’umorismo”.
Emerge, quindi, come la logica sia la ragione astratta che “avvelena” la vita dell’uomo, che aggiunge dolore e sofferenza a quelle già inflittegli dalla natura. Occorrerebbe non ragionare più, come gli animali e le piante tanto care al Tommasino Unzio, o «vivere tanto per vivere senza sapere di vivere».
Alla base di tale visione pirandelliana si colloca molto probabilmente il pensiero del Leopardi. L’introduzione a “Il fu Mattia Pascal” è intrisa di molti motivi leopardiani, segno che lo scrittore siciliano aveva profondamente meditato e fatto proprio il poeta recanatese: i “lanternini” e i “lanternoni” non sono altro che le illusioni del Leopardi che la “provvida Natura” ha inculcato negli uomini per rendere vivibile l’esistenza, per mascherare in qualche modo “l’orrore del divenire”.
Tuttavia, il concetto di divenire pirandelliano è diverso dal divenire scientifico, poiché per la scienza gli enti escono dal nulla per ritornare nel nulla, mentre Pirandello oscilla tra due diverse posizioni:
– gli enti escono dal mistero per tornare nel mistero;
– gli enti sono l’apparire della natura eterna;
Sarebbe possibile, perciò, supporre che la visione pirandelliana del mondo e delle cose non sia nichilistica, bensì agnostica: lo scrittore non fa proprie né la visione della scienza, con la quale è in aperta polemica, né quella della filosofia passata ed a lui contemporanea, ma ritiene che tutte le risposte che sono state date tanto dall’una che dalle altre, non siano che inganni della nostra ragione che, invece, è limitata e non ha i mezzi per svelare il mistero dell’esistenza.
La visione pirandelliana è sorprendentemente vicina a quella di certe filosofie orientali, come il Buddhismo, tanto più sorprendente perché non si conosce una frequentazione del pensiero indiano da parte dello scrittore. Quando i monaci domandano al Buddha come sia l’Ek (l’Uno, l’Essere), l’Illuminato risponde negando tutti gli attributi umani (è colui che non vede, che non sente, ecc.), deducendo che sia, quindi, impossibile conoscerne la natura e che occorre rinunciarvi, pur non negandone l’esistenza, ma affermando l’impotenza della ragione davanti alla metafisica: l’uomo è capace di conoscere solo ciò che fa parte del mondo fenomenico; l’Ek è il mistero che gli uomini con le loro limitate facoltà non possono sondare.
N.d.a. – Per reperire tutte le novelle dell’autore citate, si veda la raccolta “Novelle per un anno”, Newton Compton Editori, Roma, 2011.
LUCA MARIA VENERANDA